L’industria globale della moda nega il diritto alla sindacalizzazione

27 Novembre 2025

Photo by Munir UZ ZAMAN / AFP

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Amnesty International ha pubblicato oggi due rapporti complementari che evidenziano come governi, fabbriche e marchi internazionali dell’abbigliamento stiano traendo profitto dalla costante repressione delle persone impiegate nel settore tessile e dalle violazioni dei loro diritti sul lavoro in Bangladesh, India, Pakistan e Sri Lanka.

I due rapporti, intitolati “Bocche cucite: la negazione della libertà di associazione per le persone lavoratrici nel settore dell’abbigliamento in Bangladesh, India, Pakistan e Sri Lanka” e “Abbandonati dalla moda: l’urgente necessità che i marchi del settore promuovano i diritti delle persone lavoratrici”, documentano l’ampia diffusione di pratiche antisindacali nell’industria dell’abbigliamento, che si traducono in violazioni dei diritti delle persone lavoratrici, molestie e violenze da parte dei datori di lavoro.

“Una vera e propria alleanza tra marchi della moda, proprietari di fabbriche e governi di Bangladesh, India, Pakistan e Sri Lanka sostiene un’industria nota per le sue violazioni endemiche dei diritti umani. Non garantendo il rispetto del diritto delle persone lavoratrici di organizzarsi in sindacato e negoziare collettivamente, questo settore prospera da decenni grazie allo sfruttamento di una forza lavoro, perlopiù femminile, sottopagata e sovraccaricata di lavoro”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

“La nostra è una condanna dell’intero modello di business dell’industria dell’abbigliamento, che sacrifica i diritti delle persone lavoratrici in questi paesi in nome della ricerca incessante di profitti per gli azionisti delle aziende occidentali della moda”, ha aggiunto Callamard.

I due rapporti si basano su una ricerca condotta da Amnesty International tra settembre 2023 e agosto 2024, che ha compreso 88 interviste riguardanti 20 fabbriche nei quattro stati. Tra le interviste, 64 interviste sono state realizzate con persone lavoratrici e altre 12 con rappresentanti sindacali e persone attiviste per i diritti sul lavoro; oltre due terzi delle persone intervistate erano donne.

Nel novembre 2023 Amnesty International ha inoltre inviato un questionario a 21 tra grandi marchi e rivenditori che hanno il loro quartier generale in Belgio/Paesi Bassi, Germania, Danimarca, Giappone, Spagna, Svezia, Regno Unito, Stati Uniti e Cina, chiedendo informazioni sulle loro politiche in materia di diritti umani, monitoraggio e azioni concrete riguardo alla libertà di associazione, alla parità di genere e alle pratiche di acquisto.

Adidas, ASOS, Fast Retailing, Inditex, Otto Group e Primark hanno fornito risposte complete. Molti altri marchi, tra cui M&S e Walmart, hanno risposto solo parzialmente, mentre alcuni – tra cui Boohoo, H&M, Desigual, Next e Gap – non hanno fornito alcuna informazione.

“I capi ci urlano che se ci iscriviamo al sindacato, scatterà il licenziamento”

L’industria globale dell’abbigliamento è da lungo tempo sotto esame per le violazioni dei diritti umani nelle sue catene di fornitura e nel suo modello di business. Le persone che lavorano in Asia del sud, in particolare le donne, hanno a che fare sistematicamente con contratti informali e poco sicuri, salari da povertà, discriminazioni e condizioni di lavoro precarie.

In Bangladesh, India, Pakistan e Sri Lanka le persone impiegate nel settore tessile hanno riferito che il timore di subire ritorsioni da parte dei datori di lavoro impedisce loro di iscriversi a un sindacato. Tutte le persone che si occupano di organizzazione sindacale intervistate da Amnesty International hanno descritto un clima di paura, in cui supervisori e proprietari delle fabbriche spesso molestano, licenziano o minacciano chi aderisce o tenta di organizzare un sindacato, in una chiara violazione del diritto alla libertà di associazione.

“Quando le persone lavoratrici alzano la voce, vengono ignorate. Quando cercano di organizzarsi, vengono minacciate e licenziate. E quando arrivano a protestare, vengono picchiate, prese a colpi d’arma da fuoco e arrestate”, ha dichiarato Taufiq*, attivista di un’organizzazione per i diritti sul lavoro in Bangladesh.

“Le violazioni dei diritti umani avvengono ogni giorno, in quasi tutte le fabbriche”

Le autorità dei quattro stati ricorrono a molteplici modalità per scoraggiare le persone lavoratrici dall’organizzarsi o per negare loro i diritti sul lavoro: strategie antisindacali, ostacoli al diritto di sciopero – come barriere specifiche alla libertà sindacale nelle cosiddette “zone economiche speciali” (“zes”) – e la sostituzione dei sindacati indipendenti con organismi che favoriscono i datori di lavoro.

In Bangladesh alcune restrizioni legislative negano a chi lavora la libertà di associazione nelle numerose “zes”, dove si concentra gran parte della produzione di abbigliamento. Al loro posto, le autorità incoraggiano la costituzione di associazioni o comitati per il welfare, che hanno capacità molto limitate di organizzare e rappresentare il personale. Le autorità reprimono con violenza le proteste delle persone impiegate nel settore tessile e utilizzano strumentalmente la legge per punire chi partecipa a proteste perlopiù pacifiche.

In India un numero molto elevato di persone che lavorano a domicilio nell’industria dell’abbigliamento, occupandosi fuori dalla fabbrica di ricami o rifiniture, non è riconosciuto come dipendente ai sensi delle leggi sul lavoro e pertanto non ha diritto alla pensione, ad altre forme di protezione sociale previste per i rapporti di lavoro o all’iscrizione a un sindacato.

In Pakistan le persone che lavorano nel settore tessile vanno incontro a ostacoli quotidiani nell’accesso al salario minimo e ai contratti di lavoro. La corresponsione di salari inferiori a quelli dovuti, a causa della mancanza di contratti scritti adeguati e di controlli, è una pratica endemica. Inoltre, il decentramento dell’amministrazione della legislazione sul lavoro, insieme a un’ampia repressione antisindacale da parte del governo, ha portato di fatto alla negazione della libertà di associazione per chi lavora nelle “zes”.

Nello Sri Lanka le persone impiegate nelle zone franche di esportazione si vedono negata la libertà di associazione attraverso procedure amministrative eccessivamente complesse, che spesso creano ostacoli insormontabili alla costituzione di un sindacato. Quando riescono a organizzarsi, vengono sottoposte a molestie, intimidazioni e licenziamenti a causa della mancata protezione da parte delle autorità nei confronti delle ritorsioni dei proprietari delle fabbriche.

I marchi globali della moda: un alleato prezioso per governi repressivi

Le aziende della moda contribuiscono alla condizione di rischio delle persone lavoratrici, poiché non rispettano le proprie responsabilità in materia di diritti umani e trasformano la due diligence e i codici di condotta in meri esercizi formali. Favoriscono la crescita di catene di fornitura opache e dimostrano di essere disposte a rifornirsi presso governi e partner commerciali che non vigilano sulle pratiche scorrette nel lavoro, non le correggono o reprimono attivamente la libertà di associazione. L’assenza di leggi sulla due diligence in molti stati fa sì che i marchi non assumano responsabilità per le loro catene di fornitura, alimentando una rapace industria di trasformazione di materiali grezzi. Dove tali leggi esistono, la loro attuazione e portata sono ancora in evoluzione.

Il diritto internazionale e gli standard internazionali, compresi i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani e le Linee guida dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) destinate alle imprese multinazionali, impongono alle aziende della moda di individuare e affrontare tutti i rischi e l’impatto sui diritti umani, realizzando una continua due diligence lungo l’intera catena di fornitura. Tuttavia, nella maggior parte degli stati produttori di abbigliamento, l’assenza di una normativa vincolante ha permesso che la violazione dei diritti delle persone lavoratrici si radicasse nelle catene di fornitura, senza l’adozione di misure significative per porvi rimedio. Inoltre, i governi degli stati in cui hanno sede questi marchi globali non hanno adottato provvedimenti per impedire violazioni commesse all’estero da imprese sotto la loro giurisdizione.

A causa della scarsa trasparenza delle catene globali di fornitura, è difficile accertare se le politiche in materia di diritti umani vengano realmente applicate a livello di fabbrica. Tutti i 21 marchi e rivenditori coinvolti nel questionario disponevano di codici di condotta per i fornitori e di politiche o principi in materia di diritti umani in cui veniva ribadito l’impegno dell’azienda a rispettare la libertà di associazione delle persone lavoratrici. Nonostante questo asserito impegno, Amnesty International ha riscontrato la presenza di pochissimi sindacati indipendenti all’interno delle catene di fornitura delle aziende della moda nei quattro stati esaminati. Questa negazione della libertà di associazione e della contrattazione collettiva continua a ostacolare gli sforzi per prevenire, mitigare e riparare le violazioni dei diritti umani lungo la catena di fornitura.

Accesso alla giustizia limitato per le donne

La maggior parte della forza lavoro dell’industria dell’abbigliamento nell’Asia del sud è composta da donne, spesso migranti, provenienti da aree rurali o appartenenti a caste emarginate. Nonostante siano numerose, sono scarsamente rappresentate nei ruoli di gestione delle fabbriche, che riproducono frequentemente il sistema patriarcale presente al di fuori del luogo di lavoro, così come le discriminazioni di classe, etnia, religione e casta.

Le lavoratrici del settore riferiscono di essere regolarmente sottoposte a molestie, aggressioni e violenze fisiche o sessuali sul luogo di lavoro. Eppure, raramente ottengono giustizia. La mancanza di meccanismi efficaci e indipendenti per esaminare le loro denunce in contesti guidati da uomini, unita alle restrizioni imposte dallo stato sull’organizzazione sindacale e alle minacce dei datori di lavoro contro chi aderisce a un sindacato, fa sì che tali abusi continuino.

«Sono stata palpeggiata e insultata verbalmente. Nessuno nella direzione ha ascoltato le mie proteste, così ho chiesto ad altre donne di organizzarci. Sono stata minacciata di licenziamento molte volte», ha raccontato ad Amnesty International Sumaayaa*, organizzatrice sindacale di Lahore, Pakistan.

“La libertà di associazione è la chiave per sbloccare il cambiamento nel settore”

Come ha sintetizzato nel suo rapporto del 2016 il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti alla libertà di riunione pacifica e di associazione, “senza i diritti di riunione e di associazione, le persone lavoratrici hanno poco margine per modificare le condizioni che radicano la povertà e alimentano le disuguaglianze…”. Secondo il Comitato del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, “i diritti sindacali, la libertà di associazione e il diritto di sciopero sono strumenti fondamentali per introdurre, mantenere e difendere condizioni di lavoro giuste e favorevoli”.

Amnesty International chiede agli stati di garantire che tutte le persone lavoratrici possano esercitare la libertà di associazione, anche attraverso la possibilità di formare e aderire a sindacati a livello di fabbrica e di partecipare alla contrattazione collettiva. Gli stati devono inoltre indagare su tutte le possibili violazioni della legislazione sul lavoro e delle altre norme pertinenti. Quando vengono individuate violazioni, è necessario sanzionare adeguatamente i datori di lavoro, anche attraverso procedimenti giudiziari, e garantire un rimedio tempestivo e adeguato alle persone colpite.

Le aziende devono agire con urgenza adottando misure concrete per proteggere i diritti delle persone lavoratrici nelle loro catene di fornitura e sostenere il rafforzamento del ruolo delle donne nel settore. È urgente introdurre obblighi vincolanti di due diligence per fare in modo che i marchi pretendano l’assunzione di responsabilità lungo tutte le loro catene globali di fornitura e garantiscano un rimedio per chi ha subito violazioni dei diritti umani, contribuendo al tempo stesso a prevenire violazioni future.

“Oggi più che mai, è necessario costruire una strategia di approvvigionamento rispettosa dei diritti umani per l’industria globale dell’abbigliamento. Una strategia che assicuri una libertà di associazione effettiva, che sanzioni la sua negazione, che proibisca le ritorsioni contro i sindacati e che riconsideri l’approvvigionamento in ogni luogo in cui i diritti delle persone lavoratrici alla libertà di associazione e alla contrattazione collettiva siano negati”, ha affermato Callamard.

“Il successo economico dell’industria dell’abbigliamento deve andare di pari passo con la piena realizzazione dei diritti delle persone lavoratrici. La libertà di associazione è essenziale per contrastare le violazioni dei loro diritti. Deve essere protetta, promossa e sostenuta”, ha concluso Callamard.

*I nomi delle persone sono stati cambiati per proteggere la loro identità.