Pakistan, sorveglianza di massa e censura

19 Settembre 2025

Bushra Saleem

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Un anno di ricerche, condotte in collaborazione con Paper Trail Media, Der Standard, Follow the Money, The Globe and Mail, Justice For Myanmar, InterSecLab and the Tor Project, hanno dato vita a un rapporto di Amnesty International che denuncia il ruolo di una ventina di aziende che hanno sede in stati come Germania, Francia, Emirati Arabi Uniti, Cina, Usa e Canada nel rafforzamento dei sistemi di sorveglianza di massa e di censura in Pakistan.

Grazie a una catena di forniture abilmente nascosta, le autorità pachistane hanno ottenuto sofisticati strumenti di sorveglianza e di censura come il nuovo firewall Web Monitoring System (Wms 2.0) e il sistema Lawful Intecept Management (Lims).

Il firewall Wms si è evoluto nel corso del tempo grazie alla tecnologia fornita dall’azienda canadese Sandvine (ora AppLogic Networks), cui dal 2023 è subentrata la cinese Geede Networks. Alla versione attuale del firewall hanno poi contribuito componenti forniti dalla statunitense Niagara Networks e dalla francese Thales.

Il sistema Lims usa tecnologie prodotte dall’azienda tedesca Utimaco, che arrivano in Pakistan attraverso l’emiratina Datafusion.

Grazie a questa “economia dell’oppressione”, così la chiama Amnesty International, in Pakistan messaggi di testo, e-mail, telefonate e accessi a Internet potenzialmente di ogni persona possono essere controllati senza la minima idea di essere sotto costante sorveglianza. Il tutto con denaro pubblico, ossia a spese dell’ignaro contribuente.

Infatti, Wms 2.0 può bloccare l’accesso a Internet o a contenuti specifici ritenuti “illegali” dalle autorità, in modo del tutto privo di trasparenza. L’autorità per le telecomunicazioni può installare Lims su ogni rete telefonica e permette alle forze armate e ai servizi d’intelligence (tristemente noti con l’acronimo Isi, Inter-services Intelligence) di controllare la vita di ogni utente.

Queste tecnologie hanno rafforzato il potere delle autorità pachistane di prendere di mira giornalisti, esponenti della società civile e dissidenti.

“Ovvio, ogni cosa è monitorata. Un attimo dopo aver pubblicato un articolo sulla corruzione, chiunque con cui parlassi, persino su WhatsApp, è finito insieme a me sotto il loro controllo. Vanno da queste persone e chiedono perché hanno parlato con me. Sono mesi che non parlo neanche coi miei familiari”, ha raccontato ad Amnesty International un giornalista che ha chiesto l’anonimato e che ormai è costretto a praticare l’autocensura.

A ricerca ultimata, ma prima di pubblicarla, Amnesty International ha contattato le 20 aziende coinvolte: hanno risposto in due, AppLogic Networks e Niagara Networks, le cui repliche sono riportate nel documento. Nel corso della ricerca, ormai un anno fa, l’organizzazione per i diritti umani aveva ricevuto risposte interlocutorie anche da Datafusion System e Utimaco. Ha cercato di proseguire il dialogo ponendo altre domande ma le repliche non sono più pervenute.

Amnesty International ha scritto anche a Pakistan, da aziende di tutto il mondo strumenti per la sorveglianza di massa e la censura. Hanno risposto solo l’ufficio federale tedesco per il controllo sugli affari economici e le esportazioni e quello canadese per il controllo sulle esportazioni. Il governo pachistano non ha replicato ad alcuna domanda o richiesta di informazioni.

Due dei problemi più volte denunciati dalle organizzazioni per i diritti umani restano all’origine dell’uso della tecnologia da parte di governi autoritari: l’assenza di procedure di due diligence da parte delle singole aziende e la mancanza di controlli e regolamenti almeno laddove ci si aspetterebbe che potrebbero esserci, ossia nel Nordamerica e all’interno dell’Unione europea.